di Patrizia Massara Di Nallo
Il sussurrato e poetico incipit de “La bastarda di Istanbul”, “ Non maledire ciò che viene dal cielo. Inclusa la pioggia”, che ci fa presagire il tormentato percorso dei protagonisti e la filosofia di due popoli, diventa anche il rassegnato explicit del romanzo “Non sapeva che non si deve mai maledire nulla che cada dal cielo. Inclusa la pioggia” che acquieta l’animo del lettore, spettatore di una tragedia sopita ma scalpitante per tutte le pagine.
“La bastarda di Istanbul” è Aisya, una giovanissima donna, che quasi inconsapevolmente conformerà il proprio percorso di vita sotto il peso di quell’epiteto, immersa nella negata genitorialità della madre-zia e di un padre sconosciuto. Aderirà sfrontatamente ad alcuni aspetti della civiltà occidentale e al contempo accetterà le tradizioni della sua terra mentre sullo sfondo dell’iter narrativo gli altoparlanti dalla moschea continueranno a diffondere la voce del muezzin con la preghiera del venerdì e la famiglia matriarcale, composta da quattro sorelle, una nonna, una bisnonna e una nipote, Aysha appunto, si accingerà come ogni giorno a mettersi a tavola reiterando così il solo rito che le vedrà unite. E quindi tutti i singoli capitoli a cui Elif Shafak ha dato il titolo di pietanze o di spezie turche contribuiscono a far individuare, nei conturbanti profumi del cibo e negli impregnati ambienti, il fil-rouge figurativo dell’emozionale narrazione.
Si palesa così la stranita quotidianità di una famiglia frammentata che, fra la superstizione di un membro di essa e le pratiche divinatorie di un altro, fra le usanze religiose di alcuni e l’agnosticismo di altri, fra la pseudo-emancipazione ostentata e l’osservata tradizione, continua senza alcun sobbalzo eccessivo, in una bolla di omertà e finzione, caratterizzata talvolta da insoliti slanci verso il prossimo, la sua scossa esistenza comunitaria. Il climax è connotato da fiati sospesi e tormentati silenzi, suggestionanti pause letterarie e luoghi di incontro fisici e metafisici intorno ai quali nascono e si sviluppano affannate conversazioni, nelle case come nei caffè letterari, nelle meandri della mente come sui social media. Alcuni Armeni, rifugiatisi in America durante la diaspora, non riuscirono ad inserirsi pienamente nella società americana ed è proprio per conoscere la civiltà turca e rafforzare la sua identità armena che Armanoush, detta Amy, figlia di un armeno e di un’americana, decide di andare ad Istanbul.
La città ci appare come una città-nave cosmopolita, un vascello su cui sono imbarcati Russi, Armeni, Ebrei e Greci e assolutamente tutti, anche se talvolta solo sullo sfondo del tessuto narrativo, assumono una forte dignità psicologica quali tessere indispensabili alla decifrazione di un così variegato mosaico umano. Le straripanti descrizioni delle strade caotiche con i suoi caratteristici venditori ambulanti come le minuziose annotazioni sull’aspetto fisico anticipano sempre, quali fedeli ologrammi, l’addentrarsi dell’A. nella sfera psicologica delle emozioni. Tutte le figure fanno i conti con le proprie contraddizioni personali e sociali sia quando si interrogano sui tramandati racconti armeni sia quando si confrontano sulla storia turca.
Tra modernisti laici e tradizionalisti, tra una parte della civiltà turca che riflette un senso di inferiorità nei confronti dell’occidente e una parte, la classe media, che prova un senso di superiorità verso quei compatrioti definiti “bifolchi e montanari”, tra donne che rimettono il velo già tolto da anni ed altre che riflettono nei colori la modernità dell’abbigliamento e del proprio carattere, molti rimangono “bloccati tra l’Oriente e l’Occidente, tra il passato e il futuro”. Ora incalzante e avvincente, ora ovattato e misterioso è lo spaccato di una terra dal fascino millenario con la descrizione della peculiarità dei costumi turchi in atmosfere quando limpide e accoglienti quando fumose e smarrite ma sempre sature di un irrefrenabile desiderio di confronto e di conoscenza.
Così l’incontro fra le due ragazze, l’una turca Aisya e l’altra armena americana Amy, ignare entrambe del reale filo sottile che unisce le loro esistenze, le porterà gradatamente alla nascita di un’amicizia e alla condivisione di rivelazioni che sconvolgeranno le loro vite. Pervade tutto il libro una struggente malinconia, un’aura sospesa che sembra governare dalle realtà esterne fino alle peregrinazioni interiori, da un’enigmatica seduzione della vita fino all’adombrata percezione di un destino oscuro che tiene in ostaggio soprattutto gli uomini della famiglia. Il misterioso segreto di Aysha e delle sue origini aleggerà fino all’ultimo capitolo, ma la colloquialità dello stile di Elif Shafak e la sua ricercata puntualità descrittiva ti suggeriscono che l’A. lo rivelerà a favore della compiutezza delle figure e delle loro personali inquietudini di vita. Ti assale così, all’improvviso, un’inimmaginabile e stravolgente verità, cruda e crudele, in cui troverà giustificazione tutta la storia mentre lo stupore si condenserà e si dissolverà nel dramma stesso, senza alcuna replica.
Il realismo del racconto si fonda sulla nitidezza inequivocabile della parola autoriale, ricca di energia nello svelare anche vuoti e angosce, e sulla lineare strutturazione sintattica che accompagna la profondità dei temi affrontati: dal nomadismo dell’anima con le sue maschere alla fragilità emotiva, dai deliri di demenza agli enigmi. I quadri tridimensionali e i girotondi delle abitudini, i ritratti fisici e i palpitanti dialoghi, inoltre, saturano a tal punto la scrittura da farla diventare naturalmente una caleidoscopica ed esaustiva sceneggiatura. Per dovere di cronaca ricordiamo che quest’opera letteraria di Elif Shafak, oggi considerata una tra le voci più importanti della narrativa turca, ha subito nel 2006 in Turchia un processo conclusosi alla fine con un’assoluzione (sotto accusa alcune frasi di personaggi armeni che avrebbero denigrato l’identità nazionale turca).