di Gianluca Albanese (ph. Enzo Lacopo)
SIDERNO – La sentenza pronunciata oggi dal collegio presieduto dal giudice Alfredo Sicuro, atto finale del processo denominato “Recupero-Bene Comune”, restituisce al diritto una elementare certezza: almeno in larga parte, non basta essere parenti, affini o comunque congiunti di un boss per essere, automaticamente, dei delinquenti.
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Proprio così: dopo l’imponente “rete a strascico” che il 14 dicembre del 2010 portò in carcere circa 60 persone, mise i filmati degli arresti in ore antelucane su youtube ed espose tutti, quelli che si sono rivelati colpevoli e gli innocenti alla stessa gogna mediatica, oggi un giudice ha sancito un principio basilare in uno Stato di diritto: quello della responsabilità penale personale e non per appartenenza familiare.
Semplice, si direbbe. Ma non è così scontato. Basta scorgere, infatti, il lungo elenco delle assoluzioni per comprendere come oggi chi torna libero sia parente di un condannato.
E gli applausi giunti dall’area riservata ai familiari, nell’aula del tribunale, stanno a evidenziare il concetto appena espresso.
Potremmo citare tanti aneddoti, ascoltati nel corso di questi tre anni e mezzo di ingiusta (almeno per chi è stato assolto) custodia cautelare. Non citiamo i nomi dei singoli per non far torto ad alcuno, ma dietro ogni assoluzione ci sono altrettante storie. Storie di posti di lavoro persi prima dell’alba di una fredda mattina di dicembre, di sofferenze familiari, di mogli e figlie-coraggio che si sono rimboccate le maniche dopo che è venuto meno lo stipendio del papà-detenuto, di affetti e amori che si sono volatilizzati, di labbra spedite a un indirizzo nuovo, di cani da caccia morti di crepacuore dopo che quel padrone che tutte le mattine andava a trovarli, un giorno, per ragioni che saranno per sempre ignote all’amico a quattro zampe, non si sono fatti più vedere.
Storie di aziende sane che tali sono rimaste, come riconosciuto dai curatori, di carriere stroncate e di vite da ricostruire ex novo.
Forse, la gioia di questa sentenza di assoluzione toglierà lo sgomento di quell’arresto inatteso di tre anni e mezzo fa, e la vergogna per la passerella forzata dai gradini della Questura, con l’ordinanza usata a mo’ di paravento.
Forse, questi tre anni e mezzo passati ingiustamente dietro le sbarre popoleranno solo qualche incubo notturno e rimarranno aneddoti da raccontare nelle fredde sere invernali davanti al caminetto.
Ma da oggi i colpevoli sono stati dichiarati tali e gli innocenti riconosciuti per nome e cognome.
Tra loro tante donne, che da oggi tornano ad essere soltanto madri, mogli, figli e sorelle. Non “sorelle d’omertà”.
E’ la giustizia, bellezza…