di Redazione
La vita può mai ruotare intorno alla parola “presente”? Una parola così distante dall’altra sua compagna in armi, “obbedisco”. Attorno a queste due parole ruota la storia di un grande piccolo uomo. Vi raccontiamo un po’ della sua vita.
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Negli anni venti , in Italia, era duro ovunque e per chiunque nascere. Figurarsi in Calabria. Ma le difficoltà rendono duri, e se non ci pensa il destino allora si adopera l’uomo col suo gioco preferito: la guerra. Ecco Rocco Antonio Varacalli nasce negli anni venti (precisamente il 7 maggio 1920) a Cirella di Platì in un paesino calabrese ai piedi dell’Aspromonte. Un posto buono per coltivare i campi, allevare animali, ma i potenti dell’epoca decideranno che gli uomini sono buoni per la guerra: quindi tutti alle armi, con l’uniforme, stivali e marciare.
“E così mio nonno – racconta il nipote Attilio – come molti altri della sua generazione, risponderà presente ed obbedisco, sia al premilitare che al successivo arruolamento”. “Mio nonno, – racconta Attilio- con i suoi commilitoni fu spedito a recuperare i territori lasciati “ingiustamente” dopo la prima guerra mondiale, e all’assoggettamento di tutta la Jugoslavia.” A far la guerra ai partigiani di Tito e a chiunque si opponeva “all’italiana gente.
Purtroppo, però e questa è storia, dell’armistizio, dell’arresto di Mussolini e di tutto quello che succedeva in Italia, ne sapevano di più i Nazisti che gli Italiani, infatti, firmato l’armistizio i nostri soldati, “tra cui anche mio nonno Rocco – spiega Attilio -si trovarono con un fucile puntato e l’obbligo di alzare le mani arrendendosi”. Era il 10 settembre 1943.
E così su un treno verso la Germania Nazista, insieme agli altri soldati del 74° Reggimento Fanteria divisione Lombardia, dai pressi di Zagabria Rocco Varacalli viene trasferito allo stanmlager IIIa Luckenwalde, un campo di concentramento vicino Berlino. Li i diritti umani svanivano al cancello. I diritti umani non esistevano. “Li per mangiare bisognava cantare “mamma”, e chi non cantava non riceveva cibo”. Un paradosso, uno scherzo del destino cantare e rimanere bloccati lì, essere in un campo di concentramento senza sapere se si vedrà mai una nuova alba.
“Ogni giorno era come fosse l’ultimo. I morsi del freddo, i morsi della fame. E rabbia. Camminare scalzi nella neve per punizione: solo perchè si erano mangiate alcune bucce di patate arrostite di nascosto”. Solitudine nella moltitudine di altri commilitoni che condividevano la stessa sorte. Il coraggio, non piegarsi e rimanere fedele all’Italia e al Re : preferendo la prigionia alla “libertà” promessa se si decideva di arruolarsi con il nascente esercito della Repubblica Sociale di Salò.
Meglio morire dalla parte “giusta”, con la coscienza apposto verso la propria patria, i propri cari, che rinnegare tutto e tutti, compresi i propri compagni d’arme. Così continua a lavorare nei campi di concentramento e alla catena di montaggio di aeroplani nazisti. Ai quali procura col trapano qualche “foro” gratuito.
La libertà tanto agognata, sognata, sperata arriva con la liberazione.
La Germania nazista è sconfitta. Si torna a casa. Ancora qualche attimo, qualche giorno per capire se sia tutto vero o sia solo un sogno. Una mera illusione.
Non è un sogno, si ritorna a casa, la vita ricomincia tra le macerie di un’ Italia distrutta. Con il vestito da soldato, apportando alcune modifiche, convoglia a nozze.
Dal matrimonio con Agostino Maria, avrà sei figli che tra sacrifici e ostinazione crescerà cercando di non far mancare loro nulla.
Lavorerà la terra con lo stesso amore, dedizione ed impegno che dedicherà al lavoro di bidello. La guerra porterà degli strascichi che nemmeno gli anni, la moglie e i figli riusciranno a colmare, per tutta la vita odierà quelle “maledette patate” delle quali la buccia è stata parte integrante se non fondamentale nella sua alimentazione durante la prigionia.
Parlando ai nipoti racconterà il rumore delle bombe, il fischio e il tuono, il rombo secco, il frastuono, le notti gelate, il caldo del sangue che colava da una sua ferita causata da una bomba e per la quale la Madonna, l’elmo e la fortuna hanno posto riparo fermando la scheggia. La rabbia contro i Jugoslavi e contro Tito, coi suoi cecchini che teneva ferma un’intera colonna per ore. I cannoni che colpivano a distanza di km. Il campo di concentramento “stanmlager IIIa Luckenwalde”. L’odore acre che arrivava da un campo di concentramento vicino, nel quale i nazisti compivano le loro nefandezze sugli ebrei. La pistola al petto ad opera di un tedesco al quale non voleva cedere la fotografia e i calzini. La fortuna di essere stati graziati dall’esecuzione. Il fumo delle sigarette. Le bombe. I nazisti. Il ritmo incessante del cuore, prigioniero delle costole. La notte quasi interminabile in quell’orrore. E poi quasi come una salvezza, gli occhi della moglie e il matrimonio.
Ed ora attorniato l’affetto dei propri cari spegnendosi il 14 gennaio 2014 , intraprenderà l’ultimo viaggio, con al petto la medaglia al valor militare con cui è stato insignito dal Presidente della Repubblica, accompagnato dalla bandiera Tricolore e dalle note dell’Inno di Mameli lascerà il “mondo terreno” e cercherà gli occhi dell’amata moglie dall’altra parte. E lei come quasi settant’anni prima sarà li ad attenderlo. Come sempre.