di Gianluca Albanese
SIDERNO – Sono 112, quasi tutti giovani, molti minorenni. Tra loro una decina di donne. Probabilmente, quando erano ancora al largo hanno intravisto il vecchio molo aziendale in cui fino a trent’anni fa attraccavano navi greche cariche di cemento sfuso e l’hanno scambiato per un approdo sicuro. Solo in prossimità della costa di contrada Pantanizzi hanno capito che il loro viaggio sarebbe finito bene solo se fossero stati in grado di sfidare i marosi per poter toccare, finalmente, terra perché a quel vecchio pontile mancano un paio di piloni, distrutti da una mareggiata di un lustro fa. Hanno viaggiato per cinque giorni insieme dopo essere partiti dal porto turco di Izmit, a bordo di una vecchia imbarcazione il cui albero di maestra ha oscillato parecchio in prossimità della riva. Cinque giorni tra acqua, vento e mare forte. Ma una volta giunti a riva intorno alle 10, e si sono seduti dando le spalle a quel mare che tanta paura ha fatto, è stato come se non si fossero mai conosciuti: afgani da una parte; pakistani e (pochi) iracheni dall’altra. Divisi da etnia e tratti somatici, accomunati solo dalla disavventura. Prima di scendere, insieme a loro c’erano anche due uomini adulti di razza caucasica, attualmente in corso di identificazione perché morti annegati subito dopo lo sbarco. Presumibilmente sono stati tra i primi ad abbandonare l’imbarcazione; forse l’hanno condotta.
La macchina dei soccorsi si è subito attivata, con Polizia, Carabinieri, Vigili del Fuoco e Guardia Costiera in prima linea. E poi le associazioni di protezione civile e la Croce Rossa, adeguatamente supportati dall’amministrazione comunale, in prima linea nel collaborare, fornendo coperte, indumenti di ricambio e generi di conforto. I profughi sono subito apparsi in buone condizioni di salute: nessuna ipotermia o denutrizione. Anzi, chi ha fornito i primi aiuti racconta che a un certo punto hanno detto “basta” perché sazi.
Hanno atteso oltre tre ore dallo sbarco prima di essere condotti nel centro di prima accoglienza allestito, come in precedenti occasioni, nel plesso che fino a un paio d’anni era la sede della scuola di Siderno Superiore.
Nel frattempo l’amministrazione aveva chiesto aiuto ai paesi viciniori, nel tentativo di distribuire i flussi di prima accoglienza, ma senza esito positivo, e la magistratura aveva affidato al Comune di Siderno le operazioni di custodia (e futura rimozione) dell’imbarcazione, che intanto continua a oscillare sul proprio asse, trascinata da onde alte oltre due metri.
Quando sono arrivati al centro operativo comunale di Siderno Superiore, la macchina si è mostrata ben collaudata e l’allestimento è stato rapido. Tre file e mezzo di lettini nell’androne della vecchia scuola, i kit con coperte e indumenti di prima necessità nei sacchetti arancioni pronti per la consegna e una fila di bottigliette d’acqua in Pet che qualcuno sgombra con un calcio per fare disporre la coda in vista dell’identificazione: età e paese di provenienza da riferire dopo aver tolto la mascherina ed essersi messo in posa per la foto; quindi, a ognuno di loro, viene assegnato un numero spillato sul colletto. È la loro identità provvisoria.
Qualche cittadino dona coperte e indumenti per i bambini, un ragazzo ha un piede gonfio e segue gli altri senza una scarpa, mentre i volontari si danno un gran da fare per trasportare i sacchi con ciabatte in plastica e indumenti di ricambio. Quella appena trascorsa è stata la loro prima notte sulla terraferma dopo cinque in mare, prima di proseguire il loro viaggio nella filiera dell’accoglienza che diventa integrazione. Forse, nella loro mente rimarrà solo l’immagine di un pontile senza due piloni e un pezzo di spiaggia ancora selvaggia, a venti metri dal lungomare e dai lidi in costruzione. Per loro è stata la porta d’ingresso di un sogno chiamato Europa.