di Gianluca Albanese
SIDERNO – La Corte d’Appello di Reggio Calabria (presidente Bianchi) ha assolto l’ex consigliere comunale di Siderno Giuseppe Tavernese dopo la sentenza odierna che pone fine a un’odissea giudiziaria durata oltre 8 anni, 5 dei quali trascorsi in regime di custodia cautelare (due in carcere e tre ai domiciliari).
Tavernese, difeso dagli avvocati Giuseppe Sgambellone e Cesare Placanica, era stato arrestato nella primavera del 2012 nell’ambito dell’operazione “Falsa Politica” condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, considerata la naturale prosecuzione delle analoghe retate denominate “Crimine” del 2010 e “Recupero-Bene Comune” del 2011 e che colpì in particolare alcuni soggetti accusati di essere la longa manus dei clan di ‘ndrangheta di Siderno e Marina di Gioiosa Ionica nei consessi elettivi.
Il principale materiale probatorio utilizzato nelle tre operazioni è costituito, come si ricorderà, dalle intercettazioni ambientali captate nella lavanderia “Ape green” del centro commerciale “I Portici” di Siderno, in cui il boss Giuseppe Commisso classe ’47 detto “Il Mastro” riceveva sodali ed esponenti di varie ‘ndrine, intrattenendosi in numerose conversazioni.
Dopo l’arresto di Tavernese e il rinvio a giudizio, i suoi difensori optarono per il rito abbreviato, il cui processo di celebrò nel 2013. Accusato di essere un politico a disposizione del clan, Tavernese, nei cui confronti venne ascritto il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso ex articolo 416bis C.P., riuscì a dimostrare che le condotte da lui tenute erano contrarie ai desiderata della potente cosca, riconducibili alle conversazioni tra il boss Commisso e il suo braccio destro Muià Carmelo classe ’72, ucciso in un agguato a inizio 2018. Tuttavia, rimase incastrato sulla scorta di un’intercettazione ambientale che venne utilizzata dal Gup come prova della sua asserita affiliazione alla ‘ndrangheta.
Tavernese venne condannato in primo grado a sei anni di reclusione.
Gli avvocati Placanica e Sgambellone, dimostrarono in Appello le numerose incongruenze e le evidenti discrasie della condanna, ma la Corte d’Appello, in prima istanza, confermò sostanzialmente la sentenza di primo grado, tanto da indurre i difensori di Tavernese a ricorrere in Cassazione.
Il 23 marzo 2017, fu proprio la Corte di Cassazione a rinviare nuovamente in Appello la decisione, annullando di fatto la sentenza di I grado, obiettando che le osservazioni della difesa erano rimaste prive di risposta.
Appare molto interessante leggere le motivazioni per le quali il ricorso presentato dai legali di Tavernese venne considerato fondato dalla Corte di Cassazione.
“Detti motivi – è scritto nella decisione – sono stati esposti in una argomentazione complessiva, censurando che la condanna non aveva effettuato una reale verifica circa il ruolo concretamente svolto, giacchè anche la contestazione mossa – descrivendo comunicazione tra associati, partecipazione a riunioni, partecipazione a competizioni elettorali con il supporto del gruppo criminale – finiva per considerare il ricorrente come un affiliato della cosca di Siderno pur nella inesistenza di prove di costanti contatti con gli altri sodali; si sostiene ancora che il compendio probatorio a suo carico era equivoco e superficialmente esaminato, giacchè non si era dimostrato l’apporto del ricorrente agli obiettivi politici del clan e si era ignorato che talora egli venisse apostrofato non come sodale, ma come persona che veniva minacciata e che comunque perseguiva un suo proprio interesse politico.
Il ricorso del Tavernese è fondato.
La sentenza impugnata descrive il Tavernese Giuseppe come un soggetto formalmente affiliato e facente parte del sodalizio, ponendosi in relazione costantemente con gli altri sodali (tra cui lo zio Rocco Tavernese, il vertice della propria ‘ndrina – e cioè “Mino” Muià cugino di Tavernese e luogotenente del Mastro) nonché, tra l’altro, con lo stesso Giuseppe Commisso in prima persona.
La peculiarità della sua posizione di partecipe al sodalizio veniva ritenuta discendere dal fatto che era stato ritualmente ammesso alla cosca (anche) per volere di Alessandro Figliomeni (sindaco uscente di Siderno e anch’egli formale affiliato) al quale, nella stagione elettorale precedente ai fatti in esame, aveva fornito (al pari di tutta la cosca Commisso) il proprio appoggio politico/elettorale nell’ambito sempre del sostegno programmato dal gruppo di appartenenza.
Egualmente in sentenza si legge che la qualità di affiliato di Tavernese Giuseppe si desumeva dall’intercettazione ambientale del 12.01.10, prog. nr . 9590 (intercorsa tra Muià Carmelo e Commisso Giuseppe), conversazione che – scrive il giudice – «funge da architrave probatoria» circa l’affiliazione e la partecipazione del ricorrente al sodalizio.
Su questo punto, ampia parte della vicenda processuale era stata impegnata sulla identificazione della persona di cui discorrevano i predetti in quella conversazione captata: orbene, fermo il principio della natura di questione di fatto della interpretazione di una conversazione intercettata – già precisato in precedenza – occorre tuttavia anche ulteriormente specificare che il principio medesimo, per costante orientamento di questa Corte, non deve essere disgiunto dai connotati di chiarezza, decifrabilità dei significati ed assenza di ambiguità che devono connotare la conversazione in se stessa, di modo che la ricostruzione del significato di una conversazione non lasci margini di dubbio sul significato complessivo del colloquio.
Nella fattispecie, reputa il Collegio che la sentenza impugnata non abbia dato risposta ad alcune rilevanti questioni poste dalla difesa del ricorrente nell’atto di appello, riportate in una memoria difensiva puntuale: in altri termini, pur se il giudice
ha operato una ricostruzione dei concetti contenuti nel colloquio cui prima si è fatto cenno, tuttavia la motivazione non riporta alcun cenno a significati alternativi (e non palesemente irragionevoli) che pure erano stati sollecitati dai difensori del ricorrente, sia in termini di identificazione dei soggetti menzionati sia in termini di logicità e coerenza degli accadimenti ricostruiti in rapporto alla ordinaria esistenza di una organizzazione di criminalità organizzata per come conosciuta attraverso diverse risultanze processuali ormai definitive.
Così, risulta chiaro da quanto precede che l’intercettazione ambientale del colloquio in data 12.01.10, intercorso tra Muià Carmelo e Commisso Giuseppe, non mostra mai il nome del Tavernese, nel senso che non viene mai affermato espressamente che il Tavernese è un affiliato, ma si fa riferimento ad un soggetto che farebbe parte della cosca per una affiliazione consentita dal sindaco Figliomeni contro il parere dello stesso Muià.
A fronte di una certa ambiguità della conversazione in se stessa, la difesa del ricorrente aveva evidenziato che quel riferimento non era affatto chiaro, poiché:
1) in esso non si faceva mai cenno alle espressioni gergali solitamente utilizzate nel fareriferimento alle cerimonie di affiliazione («mettere i ferri», «attaccare i ferri», «è stato fatto uomo», «è stato battezzato»);
2) nella conversazione sembrava che per l’individuo de quo erano state effettuate numerose sollecitazione sino a che lui stesso «si era messo», quasi a significare che costui si era affiliato da solo, con rito autonomo e in contrasto con il volere del vertice del gruppo, circostanza questa che strideva con ogni ricostruzione delle organizzazioni criminali organizzate;
3) l’episodio sarebbe avvenuto in Lamia, contrada di Siderno nella quale però operava una ‘ndrina differente da quella alla quale sarebbe stato affiliato il ricorrente;
4) alla identificazione del ricorrente si era giunti anche individuando un altro personaggio, chiamato Mastro Rocco, che però in un passo della conversazione era stato indicato come Rocco Tavernese (zio del ricorrente) mentre in altro passo era stato indicato come Rocco Muià.
Si tratta di argomentazioni alle quali la pur diffusa sentenza non ha fornito risposta; né si rinviene risposta adeguata in ordine alle ipotesi avanzate di una confusione tra la suddivisione di cariche politiche e l’affiliazione oppure in ordine alla contraddizione intima di ritenere il ricorrente come un affiliato prono ai voleri della cosca ed affidabile nella sua azione in ambito politico rispetto, però, alle diverse volte in cui, nel corso di colloqui intercettati, egli veniva definito da altri personaggi affiliati come «somaro», «coso lordo» e «disonorato»; oppure rispetto al colloquio tra Mino Muià e Tavernese Rocco nel corso del quale il primo ammoniva il secondo a riportare un messaggio al nipote e cioè che, in caso di nuovo disaccordo, gli avrebbe fatto «le costole a pezzi» con un bastone, in tal modo facendo intravedere uno scenario di intimidazione nei suoi confronti più che una riconosciuta qualità di sodale; od anche rispetto al colloquio del 21.05.2010 . (intercorso tra Commisso Giuseppe e De Leo Commisso) dal quale traspariva una posizione di autonomia – non gradita – del ricorrente rispetto ad accordi politici con altri soggetti; oppure rispetto al colloquio del 21.05.2010 intercorso tra il ricorrente ed il Commisso Giuseppe, in cui era quest’ultimo a chiedere al primo se vi era un candidato sindaco per la sua lista e quale fosse la posizione politica del suo schieramento: anche in questo caso la motivazione non appare adeguata rispetto alla questione posta nell’appello circa l’apparente contrasto tra la posizione di un capo che dettava direttive anche in campo politico e quella del capo che ignorava chi fossero i candidati e i posizionamenti politici del suo stesso (ritenuto) sodale.
In definitiva, non è in questa sede di legittimità che possono attribuirsi i significati alle conversazioni: ma si rileva una mancata risposta alle argomentazioni difensive formalmente poste, che avevano, tra l’altro, evidenziato che il ricorrente aveva effettuato delle scelte politiche contrapposte a quelle della cosca. Non è ignorabile che non emergono cariche precise del ricorrente all’interno della cosca né si individuano condotte diverse da quelle prese in politica”.
Abbiamo inteso riportare integralmente le motivazioni addotte dalla Cassazione perché in esse si comprendono appieno le ragioni che hanno indotto una diversa sezione della Corte d’Appello a procedere all’assoluzione di Giuseppe Tavernese.
Resta l’amarezza per i lunghi anni trascorsi tra custodia cautelare e attesa di giudizio, complici i ripetuti cambi di composizione della Corte d’Appello.
Il suo processo è stato celebrato in contemporanea col processo d’Appello degli imputati che optarono per il rito ordinario, la cui istruttoria dibattimentale è stata riaperta per affidare un nuovo incarico peritale su un paio di conversazioni intercettate.