di Gianluca Albanese
MARINA DI GIOIOSA IONICA – Simpatico, schietto, alla mano. Così si presenta il cantautore romano The Niro, che abbiamo incontrato durante il soundcheck che ha preceduto l’apprezzatissimo concerto al Blue Dahlia.
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Abbiamo approfittato dell’occasione per rivolgergli alcune domande.
Hai calcato il palco del concertone del Primo Maggio a Roma, poi quello del festival di Sanremo e non disdegni di esibirti in locali come il Blue Dahlia. Segno che la musica non conosce confini...
«No, la musica non ha compartimenti stagni. Anzi, sono contentissimo di esibirmi qui questa sera e non nascondo che molti colleghi si sono complimentati con me perché suono in un locale conosciutissimo come il Bue Dahlia. E’ che quando ti esibisci non guardi dove sei ma dopo che inizi conta solo la voglia e la capacità di esprimere il mio mondo musicale».
Cosa pensi dei musicisti che escono da The Voice o da X Factor?
«Devo confessare che la questione mi lascia abbastanza indifferente, anche perché chi va in questi show televisivi, nei quali spesso i giudici sono più famosi dei musicisti, si rischia di ripiombare nell’oblio dopo un’eliminazione o dopo che si spengono le luci della ribalta. Potrebbero essere delle scorciatoie verso il successo, ma io preferisco la gavetta che si fa sempre esibendosi dal vivo».
A proposito di scorciatoie, non pensi che aver iniziato a cantare in inglese ti abbia aperto subito la via del successo internazionale?
«No, perchè sono molti quelli che cantano in inglese, ma poi non è da tutti avere la fortuna di cantare e suonare con i Deep Purple. Forse sarebbe stato più conveniente per me iniziare a cantare in italiano e poi passare all’inglese, ma non mi sono mai posto il successo commerciale come primo obiettivo».
Il tuo brano più famoso è 1969. Cosa ti ha ispirato quando lo hai scritto?
«Il fatto che quello è il periodo in cui mi sarebbe piaciuto vivere, come ho detto a Carlo Massarini in Tv. Erano tempi in cui c’era un sogno collettivo (come ad esempio lo sbarco sulla luna) che univa l’umanità intera che invece sembra capace di unirsi solo dopo eventi negativi e va dato atto agli Usa di aver creato questa speranza comune e condivisa».
In che direzione sta andando la tua musica?
«Per me la musica è ricerca costante, e in questo periodo mi concentro molto sulla ritmica, sperimentando terreni di solito impervi come i 5/4 o i 7/4 che in genere non vengono considerati e che invece intendo sdoganare».
E’ questo il periodo delle grandi collaborazioni. Ti sentiresti pronto per un’esperienza el genere, magari con chi fa un genere simile al tuo, come i Baustelle?
«Per la verità, quando facevo solo il cantante ero un animale solitario. Poi, quando sono diventato autore e produttore, ho avviato delle collaborazioni proficue: ho scritto brani per Natalie e Patty Pravo e, come produttore ho avviato un sodalizio pluriennale con Michele Brega. Diciamo che il produttore, in genere, ha una visione più ampia rispetto al cantante, e se dovessero arrivare collaborazioni di un certo tipo dal punto di vista artistico, le accetterei volentieri».
E’ vero che chi si esibisce al concerto del Primo Maggio di solito è lì perchè fa parte di certi giri?
«Nel mio caso non è stato così. Anzi, all’epoca partecipai alla prima Woodstock a 5Stelle perché era un raduno su alcune priorità per il Paese all’interno di un qualcosa che non era ancora un movimento politico. Io la politica preferisco farla in contesti diversi dalla musica e ho sempre tenute ben distinte le due cose».
Quindi ha sbagliato il rapper Fedez a comporre l’inno del M5S?
«Se ci crede davvero no. Io non ho fatto scelte definitive come lui e per mia forma mentis, la mano sul fuoco non la metto con nessuno. Rimango fondamentalmente un indipendente».