di Patrizia Massara Di Nallo (foto fonte Regione Calabria)
Fra le tradizioni natalizie calabresi, alcune delle quali osservate ancora oggi, durante la festa di San Nicola, il 6 dicembre, si doveva rigorosamente cucinare il granturco, che veniva prima lasciato sotto il lucernario per tutta la notte perché venisse benedetto dal Santo. Ancora in uso e molto rispettata è l’usanza delle fòcare, cioè i falò di Santa Lucia, dell’Immacolata e di Natale diffusi in tantissime città e paesi. L’usanza consiste nell’accendere grandi pire di fuoco davanti alla Chiesa Madre del paese e farle ardere fino all’alba, in segno di purificazione e rinascita. In altri paesi o contrade, invece, si perpetua la tradizione di bruciare un ceppo nella piazza antistante la chiesa dove veniva celebrata la Messa di Mezzanotte. Il fuoco del ceppo, in tempi antichi, serviva per illuminare la piazza, per riscaldare l’aria invernale ed alla fine,in un rito tra tradizione e superstizione, i tizzoni spenti venivano portati a casa come rimedio contro le disgrazie.
Un’usanza ormai persa, invece, era quella osservata dai contadini per programmare i lavori dei campi. Si contavano i catamisi , (dal verbo greco annunciare, indicare), cioè i giorni dal 13 al 24 dicembre ognuno dei quali si faceva corrispondere ad uno dei dodici mesi per trarre auspici per il mese intero. Nella tradizione natalizia calabrese, quindi, a partire dal giorno 13 di Santa Lucia, venivano osservati i mutamenti del tempo meteorologico per fare le previsioni su quello che sarebbe accaduto l’anno successivo. In quest’ottica e con un complicato calcolo, ogni giorno veniva paragonato ad un mese e quindi il 13 al mese di gennaio, il 14 al mese di febbraio e così via fino al giorno 24 che, naturalmente, era paragonato al mese di dicembre. Se il giorno 13 corrispondente a gennaio,quindi, avesse fatto freddo, si sarebbe concluso che il mese di gennaio sarebbe stato un mese freddo e così via riguardo a tutti gli agenti atmosferici, dal vento alla pioggia. Inoltre,ogni giorno veniva suddiviso in tre parti e ad ogni parte corrispondeva una decade del mese analizzato, cosicché se la mattina del giorno paragonato alla prima decade fosse piovuto, si sarebbe potuto ritenere che, anche nei primi dieci giorni dello stesso mese, sarebbe piovuto; se, invece, a metà giornata il tempo fosse cambiato, si sarebbe conseguentemente supposto che, anche nella seconda decade del mese, il tempo sarebbe cambiato. Era uno scrupoloso calcolo eseguito con attenzione e pazienza perché, in base alle previsioni si sarebbe potuto, o meno, prendere impegni per stipulare affari, viaggiare, celebrare matrimoni e fidanzamenti e, soprattutto, programmare la coltivazione dei campi. Tutt’oggi echeggia ancora il detto che preannunciava il lungo periodo di feste: Sant’Andria (30 Novembre) portau la nova / ca lu sei (dicembre) è di Nicola e l’ottu è di Maria, lu tridici di Lucia e lu vinticincu lu veru Messia.
Con la novena, il 16 Dicembre, la Santa Messa veniva celebrata prima dell’alba, generalmente alle ore 4,30, per consentire la partecipazione ai contadini che si sarebbero dovuti recare nei campi di buon’ora. In quasi tutti i paesi la novena veniva scandita dal suono e dal canto di un gruppo di musicanti, a volte vestito con giacche e stivali di pelle di pecora, e quindi conosciuto con il nome di “banda pilusa”. I musicanti che diffondevano il caratteristico suono della zampogna, detta cerameda passavano per le strade, si soffermavano davanti alle case per suonare le loro pastorali e, prima di continuare oltre, affiggevano sulle porte un’ immaginetta di Gesù Bambino o della Sacra Famiglia. La cerameda, così come viene chiamata nel reggino, nelle diverse aree calabresi è indicata con differenti nomi quali ceramedda, ciaramella, ciarameddha, giarameja e altre varianti ancora. Gli zampognari calabresi, con i loro canti tradizionali che risuonano nell’aria creando un’atmosfera magica, possono essere definiti gli autentici custodi della tradizione, perché ad essi è ancora oggi affidato, nei piccoli centri, il compito , durante la novena di Natale, di suonare casa per casa, accompagnati anche dal suono delle tradizionali pipìte (flauti) Spesso si incontrano piccole bande improvvisate, chiamate Ninnarelle , che suonano con gli zufoli di legno accompagnando un cantore di pastorali. La musica, infatti, durante le festività natalizie, diventa il filo conduttore che nelle nostre strade collega più radicalmente ed emozionalmente il passato al presente.
Una tradizione musicale radicata e significativa, ma limitata solamente ad alcuni territori, specialmente del cosentino, è la “strina“o strenna, canto augurale e di questua. Il termine strina (derivante dal latino “austrinus”, cioè “relativo ai periodi di maggior freddo”) è un canto augurale che porta con sé gli auspici di felicità e prosperità per il nuovo anno imminente. In tempi piuttosto remoti i suonatori ambulanti andavano di casa in casa annunciando la gioiosa novella della nascita di Cristo e, in cambio della loro esibizione, ricevevano dalle famiglie doni (uova, formaggi, salumi e vino).Questo simpatico costume si perpetuava dall’Immacolata Concezione (8 dicembre) fino all’Epifania (6 gennaio) attraversando l’intero periodo delle festività natalizie. Spesso i canti, cosiddetti “canti ad aria”, venivano ripetuti al mattino ed alla sera accompagnati dai murtali o ammaccasali (pestelli in bronzo usati per il sale che scandivano il ritmo) e da uno o più strumenti quali chitarra, mandolino, tamburello, battente, organetto e fisarmonica, in base al numero dei suonatori, detti a loro volta gli strinari.
La strina, quindi, era un’occasione per estrinsecare l’ospitalità quale valore dell’indole popolare calabrese, ma purtroppo, nel corso del tempo, questa pratica è stata trascurata, dimenticata ed oggi scomparsa quasi del tutto o sopravvissuta in parte e con altri nomi.
La tradizione vuole che ogni località abbia una propria strina, ovvero un proprio testo accompagnato con strumenti, melodie e usanze mutevoli a seconda delle zone. Nella zona di Crotone, infatti, è diffuso anche l’uso della chitarra battente, mentre nella Sila e nella Presila è diffuso lo zugghi, strumento a frizione per cadenzare il ritmo, realizzato con un barattolo di latta o di coccio con al centro una canna di bambù.
La zampogna più nota di tutta la nostra regione è la surdulina presente in buona parte della provincia di Cosenza e nel territorio protetto del Parco Nazionale del Pollino. Appartenente alla cultura arbereshe è tecnicamente il modello di zampogna italiana più piccolo in circolazione. Altrettanto famosa e degna di menzione è anche la cosiddetta «cerameda a paru», che, simbolo dell’intrattenimento e della festa nel mondo pastorale, soprattutto aspromontano, ha suscitato da sempre l’interesse degli studiosi di etnomusicologia e di antropologia culturale. Infatti, in buona parte della Calabria e, in particolare, nei contesti rurali e pastorali che ancora mantengono vive le tradizioni del passato, come a Brancaleone e a Bagaladi nel reggino, a Farneta e a Verbiciaro nel cosentino, non è insolito imbattersi in pastori che sono anche abili artigiani e costruiscono ancora questi tipici strumenti diffondenti note stridenti e insieme avvolgenti che si caricano di ricordi personali e di atmosfere sognanti per l’allegria e la commozione di adulti e bambini.