di Francesco Tuccio (photo di Luigi Antonio Spanò)
CAULONIA – Dei nostri paesi collinari quel che sorprende è il silenzio, quando le chiare e tiepide giornate d’autunno volgono al tramonto, e una mano ascosa aduna placide nubi in faccia al sole cadente per fare sfoggio di immense fantasie creative. Il cielo trabocca di gigantografie di forme frastagliate e ampollose, d’effuse gamme cromatiche e di luce fendente, pennellate immortali di fiabe antiche. Rapisce l’animo nelle profondità siderali e lascia ai margini della cornice l’infimo spettatore ammaliato, sognante i vaghi mondi delle costellazioni.
I nostri paesi sono il fulcro dei contemporanei orizzonti mutevoli, del filo circolare delle visioni incantate. Basta guardare dalle cigliate delle rupi, le creste erte che sorreggono l’agglomero delle case e il dipanare contorto dei vicoli, come vene nel lucore di un corpo languido e nudo. Sono balconi sporti su sfondi smaltati cobalto, trasparenti e ambrati, protesi sulla piana del mare e l’ondeggio della montagna, e dominano dai fianchi le vallate divaganti, vergate dai corsi d’acqua dalle piogge rinvigoriti. I muri scarificati, ebbri dagli ultimi bagliori in tralice, riflettono come specchi impietriti e fondono nell’armonia di un tripudio di note stupite.
Ormai non vivo più le loro passioni quotidiane, ma ritorno sospinto da una solidarietà carnale, dalla memoria ancestrale. Ritorno con i passi giovanili delle compagnie chiassose; ripasso dove tintinnava l’incudine, bruiva rapida la pialla, menava la lesina appuntita, stridevano il torchio e le ruote granitiche dei trappeti, risuonavano gli scarponi chiodati e gli zoccoli ferrati, le grida arrossate dei maiali scannati. Evadevano dagli antri di cantine barrate i frizzi della canzonatura del vino, le voci grevi di terra e per le strade e le piazze deserte volavano strilli argentini. Ma sono echi della memoria che dileguano nel silenzio.
Il silenzio degli orti e degli stazzi ai piedi rupestri.
Il silenzio delle case vuotate, delle polveri incanutite dei focolari e dei forni, dei rari passanti sui selci muti, dei volti rugosi nell’ombra di finestre socchiuse.
Il silenzio si è fatto ritegno, timore di rompere il silenzio che, ormai, volteggia senza posa come il passero solitario a cui hanno distrutto il nido.