*di Mario Staglianò
La verità è inestricabilmente intrecciata con la politica.
Prendiamo, ad esempio, la pandemia del Covid.
C’è un virus, un virus che provoca una malattia, quella chiamata Covid-19, che ha provocato la morte di milioni di esseri umani in tutto il mondo.
Fin qui non ci sono problemi, la verità è salva.
La posta in gioco, tuttavia, non è se il virus ci fosse, quanto come affrontare l’epidemia.
La verità, a questo punto, diventa subito una questione politica.
E in molti casi direttamente poliziesca.
“State a casa”, decide un governo, “non è necessario che stiate a casa”, decide un altro governo.
“La mascherina nei luoghi pubblici è obbligatoria”, decide un ministro della Sanità, “è consigliata, non obbligatoria”, decide un altro ministro della sanità.
Quella verità al singolare, così confortevole e semplice da seguire improvvisamente, diventa complicata.
Non c’è più una verità, ma sembrano essercene molte; e c’è di peggio, queste verità al plurale non vanno d’accordo fra di loro.
La verità, che sembrava essere solo una faccenda scientifica, diventa una faccenda politica.
Ma a questo punto il dubbio diventa lecito e sinceramente inevitabile: bisogna fare così perché è la scienza che lo stabilisce, dal momento che è la scienza che stabilisce che cos’è vero e che cosa non lo è, oppure bisogna fare così perché è l’autorità politica che decide quello che è vero e che è falso?
Si pensi al caso del green pass: come mai in democrazie molto più antiche e consolidate della nostra non si è fatto ricorso a una misura così estrema e controversa per contenere la pandemia?
Avere dubbi sulla sua effettiva necessità voleva dire essere un pericoloso oscurantista antiscientifico.
Si può parlare di scienza anche senza essere uno scienziato?
Perché uno scienziato poteva liberamente parlare di politica e di misure di ordine pubblico?
Il problema, con la verità, è che non esiste al singolare, ma solo al plurale.
Non c’è la verità, ci sono le verità.
È evidente che se di verità ne esiste, solo una è facile sapere che fare mentre se ce ne sono molte, e fra loro in competizione, diventa molto difficile decidere come comportarsi.
In realtà l’abbiamo sempre saputo, ma è appunto diventato del tutto evidente con la pandemia, quando abbiamo assistito allo scontro televisivo fra i diversi esperti, tutti “autorevoli e qualificati”, che troppo spesso non erano d’accordo fra loro sull’epidemia e su come affrontarla.
Ricordiamo la faccenda delle mascherine, nelle prime settimane del 2020?
Non servono, servono, forse sì, forse no, ma dipende dal tipo, dalla distanza interpersonale, dal tessuto.
Ci è stato subito detto che la scienza è democratica e che dovevamo essere contenti, in fondo, di questa ricchezza di opinioni perché è proprio il pluralismo il principale valore della ricerca scientifica.
Ma rendere più democratica la scienza significa semplicemente riconnetterla con la sua matrice democratica, di
apertura al dibattito, rivedibilità permanente e orientamento al bene comune.
Allo stesso tempo i problemi legati a quel plurale rimangono tutti e quindi è più che mai necessario provare a rispondere alla domanda: come evitare la conclusione relativista che ogni convenzione si equivale e che dunque, se la verità è politica è per forza relativa a un punto di vista?
Un modo per rispondere a questa domanda sarebbe quello di affidarsi agli esperti, ossia a persone che – per rimanere nel campo della scienza – dovrebbero garantire di parlare soltanto a nome della verità, indipendentemente da ogni intromissione politica.
Ma proprio il caso del virus ha mostrato quanto anche l’esperto, forse ancora più del filosofo, sia uscito malconcio dalla prova terribile dei dibattiti televisivi.
L’ambizione lo porta spesso a presentare il proprio punto di vista come l’unico esistente, finendo così, paradossalmente, per lasciare ancora più nello sconcerto chi avrebbe invece voluto affidarsi al suo parere per farsi un’idea chiara sul da farsi.
Chi produce il sapere dovrebbe quindi rendersi conto dei suoi paraocchi, imparare a farsi delle domande sulla presunta neutralità e oggettività della conoscenza.
Insomma, scienza, politica, valori e società non solo sono inseparabili, ma sono necessariamente tali: il mito di una scienza neutra, scevra dai valori della società rischia di essere solo un modo di evitare di prendersi le responsabilità che vanno con il dovere di rappresentare la realtà.
Si può essere oggettivi, anzi, ancora più oggettivi, se si riflette sui propri pregiudizi, sul posizionamento e i valori dai quali si guarda il mondo, rendendosi più consapevoli dei possibili pregiudizi che il nostro sguardo sempre situato proietta sulla realtà.
Bisogna fidarsi della scienza, è giusto, ma forse e soprattutto bisogna fidarsi delle persone, che non vanno trattate come incapaci di proteggersi e di badare al proprio interesse.
La modernità tecnoscientifica e il potere politico da cui è inseparabile non crede più nelle risorse delle persone che ritiene, infatti, che vadano protette anche da loro stesse.
La verità è importante ma di una verità senza libertà non c’è alcun bisogno.