*di Mario Staglianò
Nella poesia del 1819 “Alla Luna” Leopardi, allora ventunenne, mette a fuoco uno dei suoi temi più cari: il fatto che la rimembranza, il lasciarsi trasportare dai ricordi, può essere una delle illusioni naturali più intense, dolorose e, al tempo stesso, piene di luce.
Jón Kalman Stefánsson si è sempre spinto un po’ più in là del poeta morto a Napoli il 14 giugno del 1837.
Perché lo scrittore islandese è convinto che la scrittura possa rivelarsi la più potente macchina del tempo.
Una sorta di cargo spaziale capace di trasportare l’autore e i suoi lettori a valicare il presente, ad andare a ritroso nel passato.
Spinti da un carburante speciale: i sentimenti e le esperienze fatte nel corso della propria vita.
Stefánsson ama ripetere spesso di credere fermamente nel fatto che mentre leggiamo, scriviamo o ascoltiamo musica ci sia concesso di entrare in sintonia con l’eternità per percepirla nel suo arcano fluire.
Fino al punto che il concetto stesso di eternità finisce per diventare un antidoto potente contro la tirannia del tempo, che continua a correre imperterrito verso l’unico appuntamento ineluttabile, quello che temiamo di più: l’arrendersi alla Morte.
Non stupisce, allora, che Stefánsson scriva romanzi per mettere in contatto il lettore con l’eternità.
Ciò risulta evidente leggendo la sua trilogia formata da Paradiso e inferno, La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo.
Ma anche nel dittico formato da I pesci non hanno gambe e Grande come l’universo.
O, ancora, in altre opere indimenticabili come Crepitio di stelle e La tua assenza è tenebra.
Figlio di un muratore e di una casalinga, rimasto orfano a sei anni quando sua mamma venne portata via da una crudele malattia, Stefánsson non fa mistero di avere impiegato un bel po’ di tempo per trovare se stesso.
E per capire che sarebbero state la letteratura e la scrittura la sua vera strada maestra.
Prima, però, doveva passare per alcune tappe obbligate: abbandonati gli studi a quindici anni, gli era indispensabile illudersi che il suo vero desiderio fosse guadagnare da vivere improvvisandosi prima muratore, poi lavorando in un’industria ittica, infine facendosi assumere in un macello.
Più tardi a riportarlo allo studio, al mondo della cultura, sarebbe stato un programma televisivo.
Quello tenuto da Carl Sagan in cui l’astronomo e divulgatore scientifico raccontava i misteri dell’universo.
Fino ad allora il futuro scrittore si era sentito un alieno.
E non stenta ad ammettere, ancora oggi, di avere percepito se stesso come un disadattato ovunque si trovasse:“Solo grazie ai programmi di Sagan ho iniziato a pensare di poter diventare un astronomo, di scoprire nuovi universi”.
La vita, in realtà, aveva in serbo ben altri progetti per lui.
Perché negli anni successivi, iniziando a scrivere, Stefánsson ha capito che era quella la navicella spaziale giusta per viaggiare lungo la deriva del tempo e nello spazio dei ricordi.
E che inventando storie, pagina dopo pagina, avrebbe costruito una sua casa. Un posto dove dentro ogni parola pulsa lo stesso fascino, il medesimo mistero nascosto nelle galassie lontane.
Una materia oscura capace di sprigionare luce intensissima.
Dopo aver conquistato la critica e i lettori, dopo aver vinto il Premio Letterario Islandese ed essere stato finalista al Man Booker International Prize e al Bottani Lattes Grinzane, da qualche anno lo scrittore di Reykjavik è stato inserito tra i candidati al Nobel della letteratura.
Autore anche di raccolte di versi (La prima volta che il dolore mi salvò la vita e Quando i diavoli si svegliano dèi), Stefánsson non si è mai stancato di raccontare il mondo con quel suo sguardo incantato e doloroso, pieno di umanità e di voglia di valicare il confine che separa la realtà dall’immaginazione.
Perché se è vero che la vita è una ferita che non si rimargina mai, è altrettanto vero che nell’alternarsi dei giorni solo chi sa fare posto alla libertà di fantasticare può scavare un pertugio alla speranza.
Lo conferma anche il suo romanzo più recente: Il mio sottomarino giallo. Tradotto da Silvia Cosimini per Iperborea (pagg. 413, euro 20), questo libro è forse, tra i suoi tanti, il viaggio più personale, scanzonato eppure intenso, immaginifico e al tempo stesso malinconico che Stefánsson abbia compiuto imbarcandosi sulla scialuppa di salvataggio della letteratura in oltre trent’anni di attività.
Nel Sottomarino giallo l’estate si riflette nel verde di un parco di Londra.
Un tempo dolce e luminoso che riporta alla memoria del protagonista i giorni più dolorosi della sua infanzia.
Perché, a un certo punto, davanti a lui si materializza Paul McCartney.
Sì, proprio lui, il leggendario musicista dei Beatles.
Uno dei Fab Four che ha fatto sognare, sulle note di canzoni indimenticabili, stuoli di ragazzi sparsi nel mondo.
È a piedi nudi Sir Paul, come nella celebre foto sulle strisce pedonali di Abbey Road.
Sta appoggiato a una quercia e parla al telefono.
Non fa nulla per attirare l’attenzione. Ma quella epifania così inaspettata, dopo tanto tempo, fa rivivere alla voce narrante del Sottomarino il passato che non ha mai smesso di essere presente dentro di lui.
I giorni terribili e senza senso in cui è morta sua mamma.
Gli stessi giorni in cui ha iniziato a fare a pugni con Dio dopo aver scoperto tutta la violenza e la crudeltà che trasuda dalle pagine della Bibbia.
Un Vecchio Testamento pieno di furori divini e ansia di vendetta, così platealmente in contrasto con il messaggio umanissimo di Gesù.
Comincia da lì, da quel parco abitato dall’apparizione di Paul McCartney, una lunga ricerca del tempo perduto.
Che passerà attraverso il dolore per la perdita della madre, l’arrivo di una silenziosa e pragmatica matrigna, la scontrosa, enigmatica e alcolica presenza-assenza del padre, lo scioglimento intollerabile di una band come i Beatles, che sembravano avere costruito fondamenta solide sul concetto di amicizia.
Per fare i conti con la vita, e trovare il giusto percorso che lo allontani dal dolore, dalla delusione e dal pensiero della Morte, la voce narrante di Il mio sottomarino giallo dovrà aggrapparsi alla magia potente della scrittura.
Dal furore senza nome intriso nel paesaggio dei selvaggi Strandir, nel Nord dell’Islanda, dove fantasia e realtà finiscono per confondersi, il protagonista transiterà al fascino della poesia chiuso nella biblioteca di Keflavik.
Imparando a capire i silenzi, a esorcizzare la rabbia e a utilizzare l’immaginazione per desiderare che in un corridoio parallelo al tempo presente i Beatles possano ritrovare la loro antica amicizia.
Per rimettersi di nuovo a macinare musica assieme.
E che il grande dolore per la perdita della mamma sia condiviso nientemeno che da Gesù.
A cui non è mai stato rivelato chi fosse la sua vera madre, rimasta sempre all’ombra della figura di culto (e di comodo) di Maria Vergine.
Ed è proprio distillando dalla sua autobiografia una storia apocrifa, eretica, liberissima, non del tutto immaginaria, ma via via grottesca, pirotecnica, dolorosa, sognante e maledettamente in equilibrio tra realtà e finzione, che Stefánsson ha saputo scrivere un romanzo di avventure, folgoranti scoperte e riflessioni fuori rotta.
Accompagnando le parole con la precisione metronomica di tanta musica ascoltata, ricordata, amata appassionatamente: dai Beatles a Johnny Cash, fino ad arrivare a Lana Del Rey.
Dentro la metrica del racconto e dell’ascolto, il dialogo con chi non c’è più diventa una via umanissima per esorcizzare la paura della Morte.
Accettando l’idea che al di là delle stelle non c’è nessun paradiso perduto ad aspettarci.
Ma ogni volta che si pronuncia il nome di una persona amata, e ormai scomparsa, ogni volta che si ripetono nella memoria le sue parole, si ricordano i sorrisi e le carezze, si evoca la presenza, lei ritornerà a vivere.
Valicando lo spazio e gli abissi del tempo, annullando la condanna del silenzio, dell’assenza e dell’oblio.