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Di tanto in tanto si torna a parlare di Zes (Zone economiche speciali) da localizzare soprattutto nel Sud Italia, come della soluzione regina per attrarre investimenti esteri e stimolare le prospettive di crescita in zone in cui la difficoltà di fare impresa rimane un freno pesantissimo.
Innanzitutto cosa sono: sono aree geografiche dotate di un’autonomia giuridica e fiscale, affinché le imprese possano insediare i propri stabilimenti in ambiti dove non hanno valore legale le norme sindacali e la generale tassazione fiscale.
Le ZES sono istituite per favorire i capitali privati e sono ampiamente usate dall’immorale mondo offshore, e quindi dalle associazioni banditesche per riciclare denaro. In questi ultimo periodo, illustri Professori, Politici di vecchio stampo e Coppolini benedetti, immaginano di istituire le zone speciali nella Locride, come se questa prospettiva fosse positiva e avesse un collegamento diretto ai problemi sociali e culturali radicati in questa zona, della disoccupazione e della povertà in aumento.
Diversamente, Le ZFU (Zone franche urbane) possono essere considerate in due modi, cioè possono essere quartieri da recuperare oppure aree produttive specializzate, in tal senso si potrebbe favorire il recupero di aree degradate ma è difficile, anche in questo caso, che il capitale privato possa trovare un interesse nell’investire se non c’è la garanzia del profitto.
Ciò che rende “speciali” queste zone è esclusivamente il business environment, caratterizzato da una serie di agevolazioni fiscali e commerciali e da un contesto infrastrutturale efficiente in grado di ridurre i costi di transizione. Tuttavia, la creazione di una Zes non appare particolare semplice né scontata, e soprattutto non elimina il problema di fare impresa in Italia, ossia la burocrazia asfissiante.
Tanto per cominciare la Zes deve essere istituita attraverso una legge nazionale che disciplini le modalità di costituzione della zona stessa e la tipologia delle attività ammesse e non. Nel rispetto del principio di competenza, poi, si dovrà demandare alla Regione interessata il compito di definire il perimetro della Zes e di gestire i rapporti con gli amministratori delle aree coinvolte. A concludere un quadro già parecchio intricato, la concreta e quotidiana gestione della Zes sarà poi affidata ad una società pubblica o con capitale misto.
Non stupisce se i casi di fallimento delle Zes e delle Zfu (Zone franche urbane) siano moltissimi: si propongono solo incentivi fiscali mentre non si intacca il carrozzone burocratico che tiene in ostaggio la crescita dell’intero Paese.
Dal 1991, in Italia esiste persino una società, SIMEST, controllata da Cassa Depositi e Prestiti e partecipata da banche private, per favorire le ZES all’estero e gli interessi delle imprese italiane.
Se nell’ immaginario della nostra classe politica e sociale locale, la ZONA SPECIALE è sinonimo di sviluppo allora tutto il meridione dovrebbe essere dichiarato ZONA SPECIALE, e se ciò non accade allora significa che si sceglie di favorire alcune aree lasciando indietro il resto dei territori. E’ evidente che non è così ma, ahinoi, le ZONE SPECIALI servono, a nostro modesto parere, a favorire altri interessi e non lo sviluppo delle comunità.
Se l’obiettivo, invece, è lo sviluppo UMANO della nostra affascinante e disgraziata terra, possiamo benissimo fare a meno di ZES e ZFU poiché potrebbe accrescere i già presenti danni sociali ed economici. Credere che una ZES o una ZFU possa favorire lo sviluppo umano è un moderno trabocchetto poiché il capitalista usa la zona esclusivamente per profitto poiché sceglie quell’area privilegiata dal punto di vista fiscale, non gli interessa affatto il benessere della comunità. Usare i propri profitti per il bene della comunità si può fare senza le ZES e le ZFU.
Nel Mezzogiorno italiano, la debolezza e l’incompetenza “senza voler andare oltre” socio-istituzionale combinata ad agevolazioni o esenzioni fiscali e deroghe alla regolamentazione sui contratti del lavoro, finirebbe con il “drogare” nel breve periodo il fronte occupazionale ed economico, totalmente disabituato alla specialità delle attività ammesse nel territorio.
Una volta interrotto il programma bisognerà fare i conti con il ridimensionamento del vantaggio competitivo.
E’ evidente invece che i politici, rimanendo nello schema culturale che ha distrutto la nostra terra, cercano di attrarre capitali privati illudendosi, o mentendo, di indirizzare l’interesse privato verso un “bene comune”. In quasi trecento anni di storia il capitalismo è servito solo a se stesso, e determinati annunci pubblicitari sono finalizzati a manipolare l’opinione pubblica, come spesso accade per i media, altoparlanti del potere. Tali zone, non solo non risolvono i problemi sociali, culturali del meridione ma servono solamente a far girare le merci delle multinazionali e sostenerle nell’elusione fiscale.
Se l’obiettivo è favorire l’occupazione bisogna osservare, che la classe dirigente calabrese, anziché inseguire antiquati modelli finanziari, dovrebbe cominciare seriamente ad investire nelle ricchezze naturali e culturali della nostra Terra con politiche bioeconomiche.
Per creare occupazione stabile in questa Terra è necessario uscire dall’ossessione della crescita e programmare “seriamente” piani di conservazione e recupero.
E’ la crescita che ha distrutto paesaggio e benessere in diverse città meridionali, dalla Campania alla Sicilia. Se la classe dirigente continua a puntare all’aumento dei volumi di vendita per generare profitto, dimenticandosi degli evidenti limiti naturali e del mercato, commetterà gli stessi errori del mondo immobiliare più offerta rispetto alla domanda.
In Italia gli occupati attuali sono circa 22.566.000 su una popolazione di 60.795.612 di abitanti, nel 1968 gli occupati erano circa 20 milioni e gli abitanti circa 50 milioni, e questo cosa dimostra? Una classe dirigente che si concentra sulla crescita del PIL non crea più occupati.
Se l’obiettivo è favorire l’occupazione, i dati dicono chiaramente che la strada giusta è quella della tipicità e della particolarità dei Territori e non della competitività o della crescita attraverso la globalizzazione, poiché la crescita a tutti i costi crea disoccupati mentre le zone speciali rischiano di esporre il Territorio a nuove opportunità per la criminalità dei colletti bianchi.
“ … Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani” dal discorso di Robert Kennedy del 18/03/1968.
Comunicato stampa a cura
degli Attivisti 5 Stelle Siderno